di Alessandro Pendenza
“La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare”. Con questa, che è una delle sue ultime dichiarazioni, il giudice siciliano Rocco Chinnici fa trasparire il tragico presentimento che lo accomuna agli altri martiri della lotta alla mafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati, sempre d’estate, 9 anni dopo.
Rocco Chinnici nasce il 19 gennaio del 1925 a Misilmeri, in provincia di Palermo. Ottenuta la maturità classica nel capoluogo siciliano in pieno secondo conflitto mondiale, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza e si laurea nel 1947. Nel 1952, entrato in magistratura, viene assegnato come uditore giudiziario al tribunale di Trapani. , Nel 1966, dopo 12 anni come pretore a Partanna, prende servizio presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo come giudice istruttore. Nel 1975 giunge al grado di magistrato di Corte d’Appello, come Consigliere Istruttore Aggiunto, e nel 1979 dopo soli 4 anni diviene Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Questa ultima nomina ha un antefatto e una causa diretta: l’uccisione del giudice Cesare Torrenova, suo predecessore, il 25 settembre 1979. La strage di giudici e forze di polizia sembra però non avere fine. Non molto tempo dopo, nel 1980, continua l’attacco di Cosa Nostra allo Stato con l’assassinio del capitano dell’Arma dei Carabinieri Emanuele Basile, il 4 maggio, e del procuratore Gaetano Costa, il 6 agosto.
Il ricordo della necessità di dover confrontarsi con il collega e amico Costa in tutta riservatezza dentro un ascensore di servizio del palazzo di Giustizia e la consapevolezza che l’isolamento dei magistrati inquirenti li espone e li rende vulnerabili, lo spingono a creare una struttura di condivisione di informazioni e metodi investigativi tra magistrati dell’Ufficio, il noto “pool antimafia“. La collegialità ha però anche un altro fine: evitare che i progressi di ogni indagine vengano “seppelliti” con chi viene ucciso. Entrarono a far parte di questa squadra alcuni giovani magistrati fra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Così che, l’Ufficio Istruzione di Palermo diventa, nelle parole di Chinnici, “un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d’Italia”, grazie all’azione di “un gruppo compatto, attivo e battagliero”.
In quegli anni convulsi il pool segue diverse inchieste delicate, come i “delitti politici” del segretario provinciale della DC Michele Reina, del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del segretario regionale del PCI Pio La Torre e del Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nello stesso periodo Rocco Chinnici apre anche un altro fronte di lotta alla mafia: quello educativo e culturale. Nella sua visione, infatti, parlare alla gente della mafia, fa parte dei doveri di un giudice. La sua partecipazione a convegni e momenti di incontro con i giovani nasce dalla convinzione che la conoscenza del fenomeno Cosa Nostra fosse fondamentale per contrastarne nel futuro la diffusione nelle nuove generazioni, perché “sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani”. In questi stralci della nota intervista a I Siciliani di Pippo Fava, pubblicati nel marzo del 1983, il magistrato di Misilmeri, che per primo delinea una correlazione tra potere mafioso e diffusione della tossicodipendenza, conclude la sua intervista con un monito: “il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia”.
Nel 1982, sulla base del cosiddetto “Rapporto dei 162” di Polizia e Carabinieri, che gettava luce per la prima volta sugli schieramenti mafiosi coinvolti nella seconda guerra di mafia, istruisce il primo grande processo a Cosa nostra, il cosiddetto maxi processo di Palermo. La paternità di questo primo grande processo a Cosa Nostra e alla sue ramificazioni nel tessuto socio-economico siciliano gli costa la vita. Il 29 luglio 1983 alle 8.00 del mattino, viene fatta esplodere un’autovettura con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti alla sua casa a Palermo. Rimasero uccisi Rocco Chinnici, i componenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.
Il 1° agosto del 1983 Rocco Chinnici viene riconosciuto come vittima innocente della mafia e gli viene conferita la medaglia d’oro al valore civile. In suo onore dal 1985 esiste il “Premio Rocco Chinnici” e, dal 2015, il giudice siciliano viene ricordato come Giusto al “Giardino dei Giusti di tutto il mondo” di Milano.
fonte: Giustizia newsonline
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